Siamo arrivati al primo Concistoro di Papa Francesco. Qualcuno di voi ricorderà il cardinal O’Brien, Arcivescovo di Edimburgo e Primate di Scozia. Decise (bontà sua!) di non partecipare al conclave che portò all’elezione di Papa Francesco perché travolto dalle accuse di quattro uomini (tre dei quali sacerdoti) verso i quali il caro arcivescovo (la minuscola è voluta) aveva avuto attenzioni decisamente poco riconducibili a quelle di un padre. I quattro avevano deciso di uscire allo scoperto dopo le dichiarazioni infuocate del cardinale sui diritti degli omosessuali che la Scozia voleva riconoscere per legge. Ovviamente il nostro baldo pastore d’anime difendeva strenuamente la posizione della Chiesa e si diceva totalmente contrario a questo scempio giuridico. Ma la dichiarazione più tragicomica, quella che sarà ricordata del suo episcopato edimburghese, la fece nell’annunciare che non avrebbe preso parte al conclave: “Ci sono stati momenti in cui la mia condotta sessuale è caduta al di sotto degli standard a me richiesti, in quanto prete, arcivescovo e cardinale”. Trattenendo a stento le risate per l’involontaria comicità della dichiarazione (ovviamente scritta in un comunicato stampa. Sembra che la Chiesa non si stanchi mai di produrre comunicati stampa, spesso demenziali), mi sono chiesto se ad ognuna di queste tre categorie fossero richiesti standard diversi, se alcune cose potevano essere lecite per un prete, ma non per un arcivescovo e soprattutto quale...
Ho letto e riletto con molta attenzione il commento di mons. Angelo Riva, Vicario episcopale per la cultura, alla notizia della dimissione dallo stato clericale comminata dal Papa a Marco Mangiacasale.
Ho letto quanto scritto e ho apprezzato molto l’invito alla misericordia verso il peccatore e la certezza che “tutti coloro che in vario modo hanno patito scandalo e ferita da questa dolorosa vicenda – a cominciare dalle vittime e dalle loro famiglie, così duramente colpite nei loro affetti più intimi – possono riprendere, faticosamente, ma con speranza, il cammino che ci porta ad essere più umani”.
Ho letto la solenne affermazione “la Chiesa di Como sa di volergli (a Marco Mangiacasale ndr) bene, e di dovergli porgere, dopo l’aceto aspro della giustizia, il balsamo della misericordia”.
Ma mi sarebbe piaciuto leggere anche che la Chiesa di Como sa di voler bene alle ragazze abusate da Marco Mangiacasale, le guarda con la tenerezza e il dolore di una mamma colpita nei suoi affetti più cari, nei suoi tesori più preziosi, si preoccupa con sollecitudine di loro, si china con trepidazione sulle loro ferite, fa suo il loro dolore.
Mi sarebbe piaciuto leggere che la Chiesa di Como sa di voler bene alle famiglie di queste ragazze, famiglie che non sono entità astratte, ma sono persone, mamme, papà, fratelli e sorelle, nonni; persone che hanno sofferto e che continuano a soffrire, anche fisicamente, che si portano dentro un dolore non capito, sottovalutato,...
Sulla base di quanto scritto la scorsa settimana qualcuno potrebbe obiettare: “se io fingo di voler bene, se ho atteggiamenti esterni che non corrispondono ai miei sentimenti allora sono un falso, un ipocrita, un imbroglione, un fariseo”. Uh, che parole grosse! Ecco una tentazione perfida e subdola, che ci allontana da quanto il Signore ci chiede: la tentazione della “verità”. E non parlo della Verità con la maiuscola (in nome della quale, comunque, gli uomini si sono macchiati delle peggiori nefandezze), ma di quella verità con la minuscola, che potremmo definire come la piena corrispondenza tra quello che è il nostro essere interiore e il nostro agire. Per molti “essere veri” significa semplicemente fare sempre e solo quello che viene d’istinto, incuranti dell’impatto che questo può avere sugli altri. “Devo essere accettato per quello che sono” è un’espressione di comodo inaccettabile per un cristiano. Può essere un valido inizio per una psicoterapia, ma se ci si ferma lì siamo al culto di sé, al narcisismo più sfrenato, quello che condanna irrimediabilmente alla solitudine più nera. Il narcisista non è capace di controllare sé stesso, di valutare se e quando è il caso di dire o di fare una cosa, vive della propria voglia momentanea e fa un sacco di danni agli altri. Fa soffrire senza nemmeno rendersene più conto, l’unica cosa importante è soddisfare il proprio bisogno di essere al centro dell’universo (che poi può essere ridotto anche...
Da qualche anno si sente parlare, d’estate, di “caldo percepito”. Da quel che ho capito si tratta della temperatura esterna avvertita da noi (dall’organismo? Dalla psiche? Da entrambi?), più alta di quella reale. Siccome la stessa categoria è stata applicata qualche settimana fa, in occasione delle bufere gelide che hanno sconvolto gli Stati Uniti, anche al freddo, ho provato a mettere la parola “percepito” accanto ad altre, per vedere l’effetto che fa.
Ho iniziato con “amore percepito”. Sono partito da un dato che potrebbe apparire contraddittorio: nel Vangelo Gesù ci dà il “comandamento” dell’amore. Si può amare per comando? L’amore non è forse un sentimento? e quindi o c’è nel cuore o non esiste! Come posso obbligarmi ad avere un sentimento? Se non provo amore per questa persona (anzi, magari provo proprio avversione) che cosa devo fare? E qui entra in gioco il concetto di “amore percepito”. Penso a quanti hanno come elemento fondamentale della propria professione quello di accogliere, di far sentire gli altri rispettati, coccolati, importanti: negozianti, impiegati a contatto con il “pubblico”, camerieri. E poi, ancora, tutti coloro che operano nelle strutture sanitarie: quanto fa bene al paziente il sorriso di un medico, il gesto di attenzione delicata di un infermiere, la consapevolezza di non essere trattati come numeri. E che dire di quanti operano nel settore educativo? Gli insegnanti, i preti, i genitori stessi… Capita,...
Generare futuro
Domenica 2 febbraio si celebra la Giornata per la Vita: un appuntamento che, a partire dal 1979, ricorre ogni prima domenica di febbraio. Il titolo di questa edizione è “Generare futuro”.
Il tema, in particolare, si riferisce ai figli ed è una sorta di appello a quella “cultura dell’incontro” che “è indispensabile per coltivare il valore della vita in tutte le sue fasi: dal concepimento alla nascita, educando e rigenerando di giorno in giorno, accompagnando la crescita verso l’età adulta e anziana fino al suo naturale termine, e superare così la cultura dello scarto”.
Come ha ricordato papa Francesco, “I figli sono la pupilla dei nostri occhi… Che ne sarà di noi se non ci prendiamo cura dei nostri occhi? Come potremo andare avanti?”. E proprio con queste parole si apre il Messaggio del Consiglio Permanente della CEI per la 36ª Giornata Nazionale per la Vita.
Il testo integrale del messaggio è disponibile cliccando sul link Messaggio Giornata Vita 2014