Si diceva degli ecclesiastici e del rapporto che hanno con i soldi. Posto che davvero tanti preti, che conosco personalmente, vivono in una condizione che si potrebbe definire di povertà, nel senso che hanno fatto della sobrietà nello stile di vita e dell’aiuto ai bisognosi due cardini della propria esistenza, senza accumulare nulla e fidandosi totalmente della Provvidenza, è inutile negare che ce ne sono altri che la sobrietà non sanno neanche dove stia di casa. Li ha spesso stigmatizzati anche il Papa: auto di lusso, case proporzionate al lusso delle auto, vestiti pure, orologi non parliamone! Tutti soldi personali, mi si dirà, di cui ognuno può disporre come crede. Mi viene in mente quel prete che, negli anni trenta del secolo scorso, aveva la macchina e davanti alle osservazioni di diverse persone, affermava con tranquillità: “ma io sono ricco di mio”. Apparteneva, in effetti, ad una famiglia molto ricca! Si può parlare di “opportunità” di certe scelte? Si può ancora parlare della necessità di non dare scandalo, soprattutto oggi, quando tante famiglie normali sono precipitate nell’indigenza a causa della perdita del lavoro? Si può ancora dire che la vita di un prete, di un vescovo, di un religioso dovrebbero richiamare il più possibile la vita di Gesù? Spesso il rapporto con i soldi da parte del clero andrebbe rivisto. In modo particolare quando questi soldi non sono personali, ma appartengono alla Comunità, sono frutto di donazioni, di offerte, di sacrifici. Il prete, il vescovo, il superiore e la superiora dei religiosi non amministrano soldi propri, ma soldi di tutti, soldi spesso frutto di sudore e sacrifici, soldi donati per il buon funzionamento della struttura ecclesiale, per le opere di carità. Come vengono spesi questi soldi? Non si dovrebbe certo arrivare ai casi limite del vescovo di Limburg, in Germania, rimosso dal Papa nel 2013 per aver speso 31 (trentuno!!!) milioni di euro per ristrutturare la residenza vescovile o del vescovo di Atlanta, negli Stati Uniti, che, nel 2014, ha speso “solo” 2,2 milioni di dollari per ristrutturare la residenza (mettendoci anche una bella piscina!), e, davanti alle proteste dei cattolici della sua diocesi, ha avuto almeno la compiacenza di chiedere perdono (queste le sue parole: “Anche prima di quel fenomeno che abbiamo imparato a conoscere con papa Francesco, noi vescovi della Chiesa eravamo chiamati dai nostri fallimenti e dalle nostre fragilità all’esigenza di vivere in maniera più semplice, più umile e più a immagine di Gesù. Come pastore di questa Chiesa locale, responsabilità che mi è cara più di qualunque configurazione di calce e di mattoni sono deluso dal fatto che con i miei consiglieri sono stato capace di giustificare il progetto dal punto di vista fiscale, logistico e pratico, ma ho personalmente fallito nel valutare il costo nei termini della mia integrità personale e credibilità pastorale davanti al popolo di Dio”). L’ intenzione del vescovo sembrava essere quella di vendere la lussuosa residenza e trasferirsi in una più modesta. Chissà! Ed evitiamo pure il caso altrettanto limite della bancarotta della diocesi di Maribor, con le dimissioni forzate di tre vescovi, mons. Turnsek, mons. Kramberger, suo predecessore, e mons. Stres, vescovo di Ljubljana, in Slovenia. La diocesi aveva investito somme notevoli di denaro in molteplici attività (persino una televisione via cavo che di notte trasmetteva film pornografici!), attraverso due società messe in piedi dall’economo diocesano e facenti capo alla diocesi stessa, con l’approvazione dei vescovi, e fallite con debiti per 1,8 miliardi di euro! Che dire allora? Si può solo pregare per questi “poveri” cristiani. Che poi non sono gli unici. Forse una maggior trasparenza nella gestione dei beni ecclesiastici non farebbe male a vescovi, preti e superiori/e. Rendere conto delle entrate e delle uscite, far vedere come si sono spesi i soldi, giustificare le spese in base alle priorità: tutte cose che pretendiamo dagli enti pubblici. Perché non pretenderle anche da quelli ecclesiastici?
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